Quando il Tevere esondava liberamente…
Vi siete mai imbattuti in queste targhe, le avete mai notate? Soprattutto avete mai letto il loro contenuto? Solitamente si trovano ad altezza uomo, a volte anche più in alto, sono rigorosamente di marmo o travertino e sono scritte in italiano, le più recenti, ma le più antiche sono scritte in latino e recano dei particolari segni illustrativi… sono le testimonianze di una Roma del passato in cui il fiume Tevere, non guidato e racchiuso dagli attuali argini, nei periodi di piena, esondava allagando il centro storico della capitale. La zona più colpita era il Campo Marzio, chiamato dagli antichi romani “la riva a mezzaluna” e identificabile con la zona compresa tra via del Corso e il Tevere, essendo la parte più depressa, ossia più bassa, della città. In particolare la zona attorno il Pantheon e piazza del Collegio Romano era una vera e propria conca nella quale l’acqua in esubero del biondo fiume ristagnava per giorni costringendo la popolazione a restare chiusa in casa. La situazione venne risolta solo gli inizi del 1900 con la costruzione dei muraglioni che costrinsero il corso del fiume evitando il trasbordo dell’acqua. Come mai si aspettò tanto? Eppure i Romani erano ottimi ingegneri idraulici, sarebbero stati sicuramente in grado di immaginare degli argini con cui contenere la forza delle acque, eppure… eppure si preferì convivere con le piene del Tevere piuttosto che costruire degli argini e il motivo è semplice ed è tutto romano: il fiume era un’arteria di collegamento importantissima tra Roma e Ostia, dove si trova la sua foce, e da dove venivano fatte risalire via fiume, quindi contro corrente, le merci che venivano spedite a Roma da tutte le parti del mondo antico. Le merci venivano scaricate presso il porto tiberino, odierna anagrafe, e l’emporium, vicino al moderno ponte Sublicio, all’inizio di via Marmorata. L’importanza di questa via fluviale era tale da far passare in secondo paino il problema delle sue piene. La situazione mutò con la proclamazione di Roma a capitale del nuovo Regno d’Italia nel 1870, quando, assieme al piano stradale della città, venne immaginato anche una situazione di riordino delle sponde del fiume dove le abitazioni, baracche, erano proliferate a partire dal Rinascimento.
La realizzazione degli argini del Tevere, detti muraglioni, è stata eseguita in seguito alla piena alta 17 m che inondò Roma il 28 dicembre 1870. A seguito di tale evento eccezionale si radunò un’apposita Commissione, nominata dal Ministero per i Lavori Pubblici, che si occupò della scelta dell’intervento da adottare. La commissione esaminò i progetti proposti e si soffermò in particolare su tre di essi: la proposta del Professor Betocchi, membro della Commissione, che consisteva nella costruzione di un drizzagno che partisse da Ponte Milvio e arrivasse fino all’ospedale di Santo Spirito da dove l’alveo sarebbe stato più largo; quella dell’Ingegner Canevari, membro della Commissione, che consisteva nell’allargare il tronco urbano del Tevere dandogli una larghezza uniforme ed eliminando gran parte degli ingombri esistenti (tra cui l’isola Tiberina); la proposta del Possenti, presidente della Commissione, che prevedeva la realizzazione di diversi drizzagni a valle di Roma. La soluzione che la Commissione approvò fu quella avanzata da Canevari. L’intervento fu realizzato nel tratto che andava sulla riva destra da Ponte Sublicio a Ponte Margherita mentre sulla riva sinistra da Ponte Sublicio a Ponte Matteotti. Lo sviluppo di tale opera è complessivamente di 8 km, riguarda l’area urbana ed ha comportato una ridefinizione dell’organizzazione edilizia nelle aree di Campo Marzio, Ponte, Regola, S. Angelo, Ripa, Borgo e Trastevere. La Commissione, radunatasi nel 1870 prevedeva la realizzazione già nell’anno successivo ma si dovette attendere il 1875 per ottenere i finanziamenti dell’opera, attraverso una legge, proposta da Garibaldi. Il progetto, approvato definitivamente nel 1880, fu finanziato con 60 milioni di lire dallo Stato, dal Comune, dalla Provincia e dai proprietari confinanti. La costruzione dei muraglioni terminò nel 1926; nel frattempo ci furono piene come quella del 1915 che non comportarono nessun danno confermando la validità dell’opera del Canevari. I muraglioni del Tevere hanno certamente risolto il dramma delle inondazioni, ma allo stesso tempo hanno interrotto il dialogo tra Roma e le sue acque, privando la città di alcuni importantissimi episodi architettonici, su tutti il meraviglioso sistema di fronti lungo la via Giulia ed il porto di Ripetta di Alessandro Specchi.

A memoria di una Roma che non esiste più ci sono le nostre targhe, nello specifico quelle che vi verranno proposte sono murate a destra dell’ingresso di S. Maria sopra Minerva, gioiellino dei domenicani affacciantesi su piazza dell’Elefantino nel cuore del Campo Marzio meridionale, dove è nata e cresciuta la vostra archeologa del cuore.
La targa qui riportata reca la data del 5 dicembre del 1495, data in cui il Tevere esondò, gonfiando smisuratamente il suo letto (auctus in immensum Tiberis) e fuoriuscendo (extulit); la torbida corrente sollevò sino a questo segno le sue gonfie acque (altezza m.16,88). Nell parte terminale della targa quello che sembra una cornicetta è in realtà il letto del fiume in piena e ingrossato dall’eccesso di acqua ricevuta.

In questa seconda targa viene menzionato il pontefice (Clemente VIII) al (suo) ritorno (a Roma) dopo il recupero di Ferrara, che maledice i gorghi del fiume, mai prima di allora così superbo, impazziti fino a questo segno, nell’Anno del Signore 1598, nel giorno nono delle Calende di Gennaio – (24 dicembre). Da notare la manina con funzione di idrometro, ossia di indicatore esatto del livello impressionante raggiunto dalle acque. La targa si trova a m. 19,56 dalla riva del fiume.

Il primato la merita certamente questa ultima targa, una delle più antiche conservate, il cui testo recita: “Nell’Anno del Signore 1422, nel giorno di S. Andrea, crebbe l’acqua del Tevere fino alla sommità di questa lapide, al tempo di papa Martino V – Anno VI (del suo pontificato)” – altezza m.17,32. Da notare la diversa grafia usata dallo scalpellino e le parole abbreviate e raccordate da nesso, proprio per indicarne la troncatura al fine di rendere impaginabile in questa laide marmorea il testo. Altre due targhe non molto distanti da queste ultime si trovano a destra del cancello di ingresso alla chiesa di S. Eustachio e a via dei Pastini, a destra dell’ingresso del ristorante Arcadia. Anche in questo caso sono chiamate a ricordare ai Romani fin dove si spingesse il fiume prima dei muraglioni e di quanto fosse tremenda la forza dirompente della natura. Prestate sempre molta attenzione alle innumerevoli targhe murate che impreziosiscono gli edifici del centro storico, e non solo, in quanto parte di noi, della nostra storia, del nostro passato.