Nuove scoperte al Parco delle Tombe delle via Latina
Secondo appuntamento con la nuova rubrica di Hedera Picta dedicata alle novità in campo di scoperte archeologiche. Si resta nuovamente a Roma e sempre sulla regina viarum anche se, questa volta, la vera protagonista è la via Latina, molto spesso erroneamente associata alla via Appia, addirittura ad essa confusa. Asse viario di straordinaria importanza che collegava e collega tutt’ora Roma con Capua per un totale di circa 200 km. A differenza della più famosa consolare, però, con cui condivideva il punto di partenza, Porta Capena, di fronte al Circo Massimo (a memoria della ormai non più esistente porta delle Mura Serviane c sono due colonne in prossimità del semaforo da dove inizia la passeggiata archeologica verso Caracalla), e da cui poi si separava immediatamente salendo fino a Porta Latina, ancora esistente, da dove iniziava il suo percorso extramuraneo, non seguiva un tracciato regolare ma un tracciato montano, fatto di dislivelli e di valli da superare (come quella del Sacco e del Liri). Il motivo risiede nella funzione di collegamento che la via doveva assolvere nei confronti di quelle popolazioni che erano state avversarie dei Romani durante le guerre sannitiche e che successivamente furono assorbite da Roma; un’inclusione forzata che avrebbe permesso alla dominante di raggiungere il loro territorio, se necessario, ma che avrebbe anche permesso alle suddette popolazioni di beneficiare della presenza della via per i loro interessi commerciali.

La scoperta è avvenuta all’interno del Parco archeologico delle Tombe della via Latina, al III miglio dell’omonima via, nel cuore del quartiere Tuscolano. Il Parco, parte della più ampia realtà del Parco Archeologico dell’Appia antica, è un vero gioiellino, che si staglia tra le attuali via Appia Nuova, via dell’Arco di Travertino e via di Demetriade e che conserva al suo interno un lungo tratto della lunghezza di circa 500 m dell’antica via Latina basolata e importanti e perfettamente decorati mausolei quali quello appartenuto ai Barberini o i Corneli, quello dei Valeri e quello dei Pancrazi. L’area archeologica venne scavata da Lorenzo Fortunati, insegnante di scuola con la passione per l’archeologia, qui sorvolo, tra il 1857 e il 1858 che ottenne da papa Pio IX il permesso di condurvi a proprie spese scavi archeologici. I risultati furono sorprendenti ma il Fortunati era animato oltre che dall’interesse scientifico anche da un interesse economico per cui mise in vendita alcuni dei pezzi rinvenuti tra i quali meravigliosi sarcofagi. Revocato il permesso entrò in scena la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e vennero condotti scavi mirati e attenti alle evidenze archeologiche che portarono alla luce la basilica paleocristiana di Santo Stefano, una scoperta importantissima per la storia degli edifici di culto cristiani del suburbio romano. La basilica insisteva su una porzione della villa di Demetriade, una struttura tardoantica di un lusso sconfinato databile all’età massenziana ancora oggi tutta da indagare. Demetriade era discendente degli Anici, la famiglia che diede i natali a papa Gregorio Magno (590-604) e che aveva sul colle Celio innumerevoli proprietà. Cristiana, con ogni probabilità, donò una parte del suo praedio alla comunità cristiana da lei frequentata che la trasformò in una basilica intitolata al protomartire Stefano.

Gli scavi, a seguito dei fondi stanziati per il nuovo PNRR, interessano proprio l’area adiacente la villa, parte della quale è sotto un terreno, a confine con il parco, del Comune di Roma che lo ha destinato a campi da calcio e quindi non indagabile. Partiti qualche settimana fa sotto la direzione del direttore del Parco, il dott. Cugno, hanno già permesso di fare importanti scoperte. Si sapeva di una fase occupazionale precedente della villa risalente l II secolo d.C. quando, i proprietari, erano i Servili Silani, che vi arrivarono tra il I e il II d.C. La proprietà entrò poi a far parte del demanio sotto l’imperatore Commodo, che fece giustiziare i Silani come aveva fatto per il vicino complesso di proprietà dei Quintili.

Le indagini hanno permesso di mettere in evidenza una serie di ambienti precedenti la villa e ascrivibili all’età adrianea, comprovando, la presenza di quei Silani che furono condannati da Commodo. Le cortine murarie in laterizio e reticolato, opera mista, presentano tracce di intonaco sulle pareti, talvolta di decorazione pittorica, indicazione di una certa ricercatezza. Uno degli ambienti (nella foto qui in alto) conserva il pavimento a spina di pesca, opus spicatum, danneggiato dagli scavatori dell’800 alla ricerca di tesori nascosti e abbandonati. Siamo solo all’inizio e le premesse sono delle migliori. Degli ultimi gironi l’individuazione di un bollo laterizio dell’età adrianea che confermerebbe quanto già detto. Chissà se l’avanzamento de lavori porterà al riconoscimento di una fase ancora precedente quella adrianea.
