Figure di spicco femminili che hanno scritto la storia del XIX secolo (XVI episodio)
Mancava da qualche settimana la rubrica dedicata alle donne di Hedera Picta, e, quale occasione migliore da cogliere per rimediare, se non la festa delle donne, seppure con un giorno di ritardo. Ad ispirare la mia scrittura, questa volta, è stata una serie televisiva, sulla quale non mi esprimo, lascio a voi ogni giudizio se mai la vedrete, che ha come protagonista Lidia Poët, la prima donna avvocato.
Nonostante la presenza storica di Mara Pellegrina Amoretti, prima donna italiana a laurearsi in giurisprudenza nel lontano 1777, la prima donna a praticare la professione di avvocato in Italia è stata la poco conosciuta Lidia Poët, che riuscì a ritagliarsi una piccola parte nella storia e a sovvertire i canoni e le leggi ferree del patriarcato dell’Italia del XIX secolo. Lidia Poët non fu solo la prima avvocata d’Italia: pioniera per l’emancipazione femminile, fu tra gli ideatori del moderno diritto penitenziario e tra le promotrici del suffragio universale.
“Una donna non può essere avvocato. I suoi abiti, la sua volubilità, la sua condizione sociale – sempre un passo dietro l’uomo – non le consentirebbero di amministrare la giustizia, né di sostenere un ruolo che esige credibilità e rigore”. Questa era la convinzione comune in Italia fino all’inizio del XX secolo, finché una giovane torinese decise di laurearsi in giurisprudenza e consacrare la propria vita ad una professione fino a quel momento declinata al maschile.
🤓La sua storia riscatta il diritto al lavoro e l’affermazione professionale in un’epoca che ancora collocava le donne accanto al focolare riservando carriera e potere agli uomini.

Lidia Poët, era nata a Perrero, piccolo borgo nella val Germanasca in un’agiata famiglia valdese il 26 agosto 1855 . Ultima di sette fratelli, proveniva da una famiglia di proprietari terrieri sensibili ai temi della cultura e dell’istruzione. Adolescente, lascia la famiglia per trasferirsi a Pinerolo dove già risiedeva il fratello maggiore Giovanni Enrico, titolare di uno studio legale avviato. Studiò per diventare maestra, una delle poche professioni concesse alle donne nell’Ottocento, ma il suo sogno era un altro. Dopo la morte del padre, aveva diciassette anni, conseguì la licenza liceale e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Torino, unica donna, in un ateneo frequentato solamente da uomini, dove si laureò il 17 giugno 1881 dopo aver discusso una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Nei due anni seguenti fece pratica legale a Pinerolo presso l’ufficio dell’avvocato e senatore Cesare Bertea e assistette alle sessioni dei tribunali. Svolto il praticantato, superò in modo brillante, con il voto di 45/50, l’esame di abilitazione alla professione forense e chiese l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino. Inizialmente le fu concessa poi Il procuratore generale del Regno mise in dubbio la legittimità dell’iscrizione e impugnò la decisione ricorrendo alla Corte d’Appello di Torino. L’11 novembre 1883 la Corte di Appello accolse la richiesta del procuratore e ordinò la cancellazione dall’albo (nella foto in basso). Malgrado il ricorso di Lidia, la sentenza fu confermata l’anno successivo.

Tra le motivazioni anche fattori estetici, come l’incompatibilità tra la toga e gli «abbigliamenti strani e bizzarri» che le donne sono solite portare, rischiando di distrarre con la propria presenza il regolare corso dei dibattimenti. Lo scritto si concludeva con un’ammonizione: le donne non dovrebbero considerare un progresso «mettersi in concorrenza con gli uomini» e divenire «eguali anziché le compagne».
Negli anni successivi il dibattito continuò e valicò i confini delle aule forensi per arrivare nelle piazze e nei circoli culturali, dove si aggiunsero altre teorie contrarie all’emancipazione delle donne nell’avvocatura. La prima fu di carattere medico e riguardò il ciclo mestruale, impedimento all’obiettività e serenità necessarie per affrontare serenamente una causa; il secondo impedimento fu di carattere giuridico e si ricollegava al divieto per le donne di essere ammesse nei pubblici uffici e di godere di autonomia economica, appannaggio degli uomini di casa (se ne era già parlato con Virginia Woolf, ep. XV). Lo stesso valeva per la possibilità di spostarsi in autonomia e frequentare luoghi normalmente preclusi al genere femminile. Ciò avrebbe condizionato fortemente una donna avvocato, pregiudicando la sua affidabilità ed efficacia professionale a discapito dell’assistito.

Nella foto in alto un’intervista rilasciata dalla Poët al Corriere della Sera, il 4 dicembre 1883
Allora perchè studiare? Come mai era consentito alle donne di studiare se poi la professione non poteva essere esercitata? Ancora un volta per offrire alla donna un valore aggiunto nella ricerca di un buon partito e per il raggiungimento di una buona posizione sociale, niente di più. Lidia non si fece abbattere e prestò i suoi servizi allo studio legale del fratello. Nel 1908 a Roma si tenne il Primo Congresso delle donne italiane cui Lidia partecipò sbandierando temi quali l’immigrazione, il suffragio universale e l’istruzione, tema quest’ultimo, presentato al Consiglio Internazionale delle donne, tenutosi a Roma nel 1914, focalizzando il suo contributo sull’assistenza morale e legale ai minori in Italia, giudicando inappropriati i sistemi coercitivi e punitivi (prigioni e riformatori). L’educazione scolastica restava lo strumento per assicurare un futuro ai giovani e un adeguato sostegno alle famiglie italiane. In particolare prese a cuore il destino dei detenuti sostenendo il valore della riabilitazione (sugli stessi argomenti vedi Laudamia Bonanni ep. VII e Ersilia Bronzini Majno ep. IX).
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale molte donne, con gli uomini al fronte, dovettero occuparsi degli affari e della famiglia; Lidia si arruolò nella Croce Rossa e fu in prima linea, meritando, per questo, una medaglia al valore. Nel 1919 la legge 1176 riconobbe, all’articolo 7, il diritto delle donne a tutti gli impieghi pubblici, esclusi ruoli legati alla magistratura, alla politica o in ambito militare. A seguito di questo pubblico riconoscimento per le donne, Lidia riuscì a vincere la propria battaglia iscrivendosi all’Albo degli avvocati di Torino. Morirà il 25 febbraio 1949 a Diano Marina, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita senza essersi mai sposata e senza figli. Viene sepolta a Perrero, nella valle che le ha dato le origini. Nel cimitero locale, dedicato a san Martino, l’epigrafe sulla sua tomba la commemora come «prima avvocatessa d’Italia», ricordando l’esempio che ha saputo portare alle donne del suo tempo, aprendo loro la strada verso una parità di genere ancora lontana ma forse finalmente possibile.